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Tra pochi giorni avrà inizio il nuovo anno scolastico.
Ha già avuto inizio da parecchio tempo, invece, il gioco delle statistiche e del totoscuola: è della scorsa settimana l’articolo su La Vallée che snocciolava le cifre degli iscritti ai vari istituti superiori, e della settimana precedente quello che presentava i numeri della scuola dell’obbligo. Poi, quasi senza sosta durante l’estate, si sono susseguiti tra gli insegnanti nomine, avvicendamenti, dubbi, certezze. E tra i ragazzi le voci e le curiosità: chi saranno i nuovi professori, quanti i nuovi compagni ripetenti o arrivati da altrove.
C’è però una situazione che difficilmente rientra nelle statistiche, ma che ogni anno interessa un numero tristemente elevato di bambini e ragazzi. Una situazione dalla quale non è immune la nostra regione e sulla quale credo sia importante portare l’attenzione di tutti. Sto parlando del trasferimento da una scuola ad un’altra al termine dell’anno scolastico.
Ci sono studenti che cambiano scuola per motivi pratici: non è di loro che mi occuperò in questo articolo. Ci sono studenti che cambiano scuola perché «non si trovano bene», perché ci sono problemi – seri – che non sono mai riusciti a risolvere, perché quella scuola non costituisce un ambiente sereno di vita e di apprendimento per quel ragazzo.
Parliamo di loro.
Più volte in questo blog ho detto di rapporti non proprio positivi tra i ragazzi che seguo (lo ricordo: tutti con disturbi dell’apprendimento) e alcuni insegnanti; più volte ho raccontato episodi ben poco edificanti che andavano dal mancato rispetto del PDP, alla valutazione irrispettosa delle difficoltà diagnosticate, fino alle umiliazioni messe in atto ripetutamente, anche di fronte ai compagni di classe.
Oggi voglio prendere come esempio due casi, come sempre senza citare alcun nome – né dei ragazzi, né degli insegnanti, né delle scuole –, poiché quello che vi racconto è all’ordine del giorno in tante scuole, per tanti studenti e per tanti insegnanti. Si tratta di un ragazzo di scuola superiore e di una ragazzina che ha frequentato la seconda media, entrambi con DSA seri.
Il primo è stato diagnosticato tardi, soltanto durante l’anno scolastico appena terminato. Ho iniziato a seguirlo nell’estate del 2017, con il compito di aiutarlo a riparare a settembre le tre materie in cui aveva ottenuto il debito, e ho continuato a lavorare con lui fino allo scorso giugno. La fatica è stata enorme, le difficoltà di questo giovane davvero importanti, ma di pari portata sono stati la sua tenacia e il suo impegno. Gli sono stato accanto per parecchie ore alla settimana, sono andato a scuola, ho parlato più volte con i docenti e con il referente DSA, insieme abbiamo analizzato la diagnosi nel frattempo pervenuta, abbiamo studiato un PDP adeguato. Nonostante questo, alcuni insegnanti hanno continuato per la loro strada, incuranti dei disturbi del ragazzo, della diagnosi, del PDP: verifiche e interrogazioni uguali al resto della classe, strumenti compensativi non sempre garantiti, misure dispensative poco o per nulla applicate. Con la ciliegina sulla torta della frase ripetuta come un mantra: «non sei fatto per questa scuola» (ma su questo mi sono già espresso in questo articolo). E, alla fine dell’anno, la bocciatura. Risultato finale: il ragazzo in questione ha lasciato la sua scuola e, dalla prossima settimana, frequenterà un istituto superiore a Torino. Con l’auspicio di trovare un ambiente per lui più sereno e, soprattutto, insegnanti meno presuntuosi e più disposti a fare quello che anche qui avrebbero dovuto fare: semplicemente, prendere atto delle sue difficoltà oggettive e adeguare ad esse le richieste e le valutazioni, anziché pretendere che lui adeguasse le proprie difficoltà alla scuola.
La seconda è mia cliente da due anni, l’ho seguita durante la prima e la seconda classe della scuola secondaria di primo grado e continuerò a lavorare con lei anche in terza. Anche per lei, un DSA misto che non le lascia scampo: difficoltà enormi in tutte le aree di apprendimento, memoria fragile, fatica nello studio e nello svolgimento dei compiti. Anche per lei, il mio intervento a scuola, in più riprese (alcune delle quali insieme alla neuropsichiatra infantile e al logopedista), grazie anche ad un dirigente disponibile e collaborativo: analisi della diagnosi, discussione del PDP, suggerimenti e ipotesi di lavoro. Nonostante questo, ecco l’insegnante presuntuosa e ottusa, che non solo non aiuta la ragazzina, non solo anzi le pone continui ostacoli, non è disposta a spiegarle ciò che non ha capito, non è disposta a ridurle i compiti a casa e le verifiche a scuola, ma la deride, la umilia di fronte ai compagni, le chiede perché non l’abbiano bocciata alla primaria, le appioppa solo ed esclusivamente dei 4, e arriva al consiglio di classe di fine anno a chiederne la bocciatura (l’ho raccontato in questo articolo). Che non c’è stata, grazie agli altri insegnanti che, invece, hanno capito e hanno fatto di tutto per aiutarla, e non è un caso che in pagella abbia ottenuto anche molti 7. Però, nonostante un carattere solare ed un sorriso disarmante che non ha mai perso, alla fine la ragazzina non ce l’ha più fatta, si è arresa di fronte alle umiliazioni, all’ottusità, alla presunzione. E dalla prossima settimana sarà in un’altra scuola, a frequentare la terza (l’anno dell’esame) con compagni diversi – non pensiate che sia cosa facile mollare gli amici di due anni… –, ma soprattutto con professori diversi. Peraltro, che io conosco e con i quali già lavoro – con spirito di collaborazione e profitto – per un altro cliente. Professori competenti, attenti, disponibili: come dovrebbero esserlo tutti.
Due trasferimenti che io considero due perdite per le scuole da cui i due soggetti se ne sono andati. Ma che, temo, non così abbiano considerato le scuole medesime. Si sarà detto, per il ragazzo, che finalmente ha capito che quella scuola non fosse per lui, che i docenti avevano ragione; per la ragazzina, che non era in grado di stare al passo della classe e che andrà in una scuola meno esigente.
Quello che si dovrebbe dire, invece, è che queste due scuole hanno fallito. Non sono state in grado di farsi umili, di stare al livello dei loro alunni, di mettersi in discussione, di cercare ogni modalità possibile per essere «scuole giuste» per loro. Non hanno fallito il ragazzo e la ragazzina, hanno fallito le scuole. Spero, di cuore, che prima o poi le scuole aprano gli occhi e considerino queste vicende come fallimenti; e che da questi fallimenti – finora invisibili – imparino una lezione che, purtroppo, tarda ad essere compresa.

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