Non fingerò rapporti di amicizia, né di buona conoscenza, con Raoul Casadei: non ci siamo mai incontrati, io sapevo poco di lui e lui non sapeva nulla di me, compresa la mia esistenza. È normale: la “star”, tra noi due, era lui.

 

 

Non fingerò rapporti di amicizia, né di buona conoscenza, con Raoul Casadei: non ci siamo mai incontrati, io sapevo poco di lui e lui non sapeva nulla di me, compresa la mia esistenza. E’ normale: la “star”, tra noi due, era lui.

Conoscevo però, al pari di milioni di persone, la sua musica: mi è toccato suonarla più di una volta in vita mia e l’ho anche ballata, diciamo così. Quello straccio di valzer che so (sapevo) fare, l’ho imparato sulle note e sul ritmo di “Ciao, mare”, “Romagna mia”… e così via.

Casadei è stato il profeta del “liscio” in Italia, vale a dire nel mondo: ai miei tempi se la giocava con l’Orchestra Castellina-Pasi e, almeno qui nel Nordovest, con qualche formazione piemontese… Ma alla fine il match se l’è aggiudicato lui, il Raoul nazionale. Perché Casadei intuì la differenza tra un’orchestrina qualsiasi (ce ne sono a centinaia) ed una vera Orchestra-spettacolo. La prima suona e basta, la seconda porta sul palco se stessa o meglio la parte più allegra, scanzonata e coinvolgente dei propri componenti. Credo sia questo che, alla fin fine, abbia fatto la differenza tra Casadei e tutti gli altri.

E veniamo, comme d’habitude, al nodo polemico della questione (è un passaggio nevralgico, qui a Vinitaly: che si parli di francobolli o di eutanasia, il nodo polemico non manca mai): il liscio è musica di qualità? Questione complessa, anzi matassa intricata che va in qualche modo dipanata. Ci proviamo?

Avrete notato (se non l’avete notato, portatemi il diario) che più su ho scritto “mi è TOCCATO suonarla”, quasi a voler descrivere una sorta di condanna.

Ed in effetti, per noi l8-2Oenni, appassionati di Santana e Deep Purple, suonare il liscio era considerato proprio alla stregua di una condanna: qua in Valle, se volevi suonare in pubblico, dovevi sapere che prima o poi, di riffa o di raffa, ti sarebbe toccato il liscio. Perché?

Perché era quello che la gente voleva, cui anelava, che anzi bramava! Non era nemmeno pensabile un “Palchetto” o una sala da ballo in cui non risuonassero, ad un certo punto, le note del clarino e della fisa, che si inseguivano in un valzer o un tango, una polka o una mazurca. E allora sapevi che, se volevi suonare “Samba pati”, dovevi essere pronto anche ad eseguire “Rosamunda”… E via andare.

Il problema era che, per noi rockettari esterofili, il “lissio” era paragonabile a colorare le figure per un pittore. Nella nostra giovanile irruenza ed ignoranza il genere casadeiano era senz’altro musica di serie B, se non C…

E, naturalmente, sbagliavamo.

Intanto perché orchestrali e cantanti, di quelle formazioni, erano e sono professionisti di prim’ordine, tecnicamente preparatissimi e capaci anche di improvvisare o di eseguire brani fuori scaletta, senza battere ciglio… Ergo la qualità, rigorosamente di serie A, era ed è garantita.

Ma sbagliavamo anche su di un altro piano, quello sociale, per così dire: il ballo liscio, ed il suo repertorio musicale – spesso fatto anche di brani musicali tutt’altro che di facile esecuzione – hanno un pregio incommensurabile, che è quello di portare allegria e spensieratezza. Potevi aver avuto una settimana tremenda, potevi aver buttato il sangue sui campi o in officina, ma sapevi che il sabato, sotto il tendone del palchetto, ti aspettava una serata di completo relax, di divertimento assoluto, fatto di balli ma anche di ascolto, di sguardi che si incrociavano, complici, di ragazze agghindate e profumate e di ragazzi che gonfiavano il torace davanti alla Bella del paese…

Erano serate che sapevano di Sangiovese o di Barbera, a seconda del luogo in cui ti trovavi a vivere, di salame e di mentine per rinfrescare l’alito… Di notti in bianco o di avventure amorose che a volte poi sfociavano in un matrimonio (qualche volta riparatore… chi lo sa?).

Il volume della musica era alto, certo, ma sopportabile; i ritmi non tendevano ad istupidire le persone e le “pasticche” non si sapeva nemmeno cosa fossero. Sicuramente ogni tanto ci scappava la mini-rissa, o la scazzottata, ma era tutta roba alla buona, confronti che si risolvevano con quattro sberle e poco più. Ogni tanto le davi, ogni tanto le prendevi… Ma tornavi sempre a casa con le tue gambe. Ecco: non c’era odio né esasperazione.

Insomma grazie, signor Casadei: grazie per tutto quello che ci ha dato, per la vita meno grama, per averci aiutato a tirare avanti la carretta.

Ora Lei ha posato la sua: faccia buon viaggio.

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