Condividi:          La chiamerò «malascuola». Sia per la sua somiglianza con la «malasanità» che tutti ben conosciamo, sia per il suo oceanico divario con la «buona scuola» che il Governo tanto decanta e che peraltro – lo dico subito, per fugare qualunque idea di polemica gratuita nei confronti della scuola italiana – per fortuna esiste davvero, forse […]
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La chiamerò «malascuola». Sia per la sua somiglianza con la «malasanità» che tutti ben conosciamo, sia per il suo oceanico divario con la «buona scuola» che il Governo tanto decanta e che peraltro – lo dico subito, per fugare qualunque idea di polemica gratuita nei confronti della scuola italiana – per fortuna esiste davvero, forse anche più di quello che si pensi. Ma che, purtroppo, viene molto spesso, troppo spesso infangata da situazioni che di “buono” non hanno veramente nulla e rischiano anzi di rendere la scuola stessa “cattiva”. Racconterò fatti veri di questa malascuola. Senza fare nomi, tanto poi magari ci penseranno i giornali a parlarne; semplicemente raccontando, affinché sia ciascuno di voi a trarre le debite conclusioni.
La protagonista di questa brutta storia è una ragazza sedicenne, che chiamerò Anita perché non è un nome diffuso. Anita ha appena terminato il primo anno presso una scuola superiore di Aosta; ha una diagnosi di disturbo dell’apprendimento di tipo misto, in più ha importanti carenze nella memorizzazione, tali per cui fa una fatica indicibile a ricordare quello che studia. La diagnosi è arrivata tardi, soltanto l’anno scorso, mentre frequentava la terza classe della secondaria di primo grado. Prima, come è ovvio, solo grande fatica, insuccessi scolastici, frustrazioni, e la ripetenza della prima media. Poi la certificazione, la scuola nuova, il PDP, la prospettiva di una vita nuova e, soprattutto, di un po’ di respiro a scuola.
Utopia. Il PDP c’era, ma pochi docenti si sono fatti carico di dare ad Anita gli aiuti che le sarebbero spettati di diritto: quasi nessuno le consentiva di usare schemi e mappe concettuali, quasi nessuno adeguava le richieste, le verifiche e le interrogazioni alle sue difficoltà. Il primo quadrimestre, quindi, è stato un disastro. A marzo è giunta nel mio studio, con cinque materie insufficienti; con la famiglia ho subito fissato due obiettivi: lavorare con Anita per darle un metodo di studio e aiutarla a rimediare le insufficienze, e aprire un dialogo con la scuola – lo faccio per tutti i ragazzi con cui lavoro – per ottenere la corretta applicazione del PDP.
Anita ha iniziato ad impegnarsi davvero. Gli insegnanti, invece, non hanno fatto altrettanto. Quindi siamo andati a scuola, io e la neuropsichiatra che ha stilato la diagnosi: abbiamo spiegato ai docenti il significato dei valori scritti nella diagnosi, abbiamo illustrato i problemi nel dettaglio, abbiamo indicato le modalità di lavoro e gli strumenti compensativi necessari, tra cui l’uso delle mappe concettuali in tutte le materie. Niente da fare: l’insegnante di storia persisteva nel negare ad Anita l’uso degli schemi e, naturalmente, ad appiopparle voti insufficienti. Gli ho telefonato: «Io non sono d’accordo a farle usare gli schemi, preferisco farle meno domande o più semplici», è stata la sua giustificazione; ho obiettato che Anita non riesce a memorizzare quello che studia, non è il numero di domande a fare la differenza, bensì proprio la possibilità di usare schemi che le consentano di recuperare dalla memoria quello che sa; ma è stato inutile. Allora siamo tornati a scuola, io e la neuropsichiatra, questa volta a parlare con il preside, a dirgli che così non andava bene, che così Anita non avrebbe potuto farcela. Lui ci ha assicurato che nelle ultime interrogazioni (quelle di recupero) la ragazza avrebbe potuto usare i suoi schemi in tutte le materie, compresa storia.
Infatti gli insegnanti hanno capito, le hanno dato una mano, le hanno concesso i facilitatori; e Anita ha ottenuto la sufficienza in tutte le materie.
Tranne due.
L’insegnante di storia non le ha permesso di usare gli schemi neppure nell’ultima interrogazione di recupero, e per di più l’ha interrogata su argomenti specifici spiegati in classe anziché su quelli più generali del libro di testo. E le ha dato tre. E tre Anita ha avuto anche in pagella.
L’insegnante di un’altra materia non le ha concesso di essere interrogata, in quanto «possono recuperare solo gli studenti che hanno la media del 5,5», mentre lei aveva la media del 5.
Due materie a settembre. E genitori arrabbiati, che hanno inoltrato formale reclamo alla scuola e portato il caso alla Sovrintendenza agli studi.
Come dicevo, lascio a voi trarre le debite conclusioni.
Io dico solo che, per fare la buona scuola, bisogna prima formare dei buoni insegnanti.

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