Una ragazza con disturbi dell’apprendimento viene bocciata in prima superiore e deve ricorrere al TAR per ottenere il rispetto dei propri diritti. I giudici le danno ragione con una sentenza esemplare. Si tratta di una mia cliente. Ma questa storia deve finire.

 

 

UN paio di settimane fa praticamente tutti i media locali, sia cartacei che online, hanno diffuso con grande risonanza una notizia definita «eclatante»: il TAR della Valle d’Aosta ha annullato il provvedimento con cui una scuola secondaria di secondo grado aveva bocciato una ragazza con DSA al termine dell’anno scolastico 2022-23.

Si tratta sicuramente di una sentenza di fondamentale importanza, al di là del caso specifico, per due motivi distinti ma ugualmente rilevanti.

In primo luogo perché riporta l’attenzione su un argomento che, pur essendo sempre all’ordine del giorno, molto spesso viene sottovalutato o addirittura ignorato: le difficoltà che gli studenti con disturbi dell’apprendimento incontrano lungo il loro percorso scolastico, frequentemente costellato da insuccessi e frustrazioni dovuti a voti bassi, prestazioni inadeguate, debiti da recuperare a settembre; e talvolta — come in questo caso — bocciature.

Il secondo motivo è che mette in luce, in maniera decisa e inequivocabile, l’inadeguatezza di una scuola che non ha saputo offrire a questa ragazza la possibilità di affrontare l’anno scolastico nella maniera più idonea alle sue difficoltà, anzi che l’ha ostacolata lungo il percorso fino a “condannarla” alla bocciatura.

Questa sentenza e l’intera vicenda mi interessano particolarmente e per questo ho deciso di parlarvene qui. Pur omettendo, come è giusto, qualunque riferimento ai protagonisti — tanto la ragazza quanto la scuola —, non ometto e anzi dichiaro apertamente il fatto che la studentessa in questione è una mia cliente e che io ho seguito l’intera questione fin dall’inizio, prestando assiduamente la mia consulenza fino alla sentenza favorevole.

La storia ha avuto inizio nel mese di novembre 2022, quando il consiglio della classe in cui la ragazza aveva appena iniziato il primo anno della scuola secondaria di secondo grado ha predisposto per lei il PDP. La nostra protagonista, infatti, da diversi anni è certificata per disturbi dell’apprendimento e presenta un’altra patologia che rende il quadro di DSA grave, circostanza pacificamente confermata dalla neuropsichiatra infantile che l’ha sempre avuta in carico.

Fin da subito la famiglia si è resa conto che il PDP non era del tutto adeguato alle difficoltà della ragazza e che alcuni insegnanti non applicavano le misure opportune per consentirle di apprendere al meglio e ottenere risultati in linea con l’impegno profuso nello studio. In particolare, le verifiche e le interrogazioni di diverse materie non erano per nulla costruite adeguatamente e risultavano quindi praticamente impossibili da affrontare e superare con buoni risultati.

È dunque ben presto iniziata, da parte dei genitori, una fitta corrispondenza via mail, nonché una serie di colloqui ora con i singoli docenti, ora con la coordinatrice di classe e la referente DSA, con l’obiettivo di addivenire a un PDP completamente adeguato — e in linea con le indicazioni della neuropsichiatra —, ma soprattutto di ottenere da tutti gli insegnanti il rispetto delle misure previste.

Ma gli insegnanti hanno sempre soltanto opposto la (presunta) correttezza del proprio operato, adducendo la “colpa” delle numerose insufficienze — che nel frattempo la nostra protagonista stava accumulando — unicamente allo scarso impegno e ad un metodo di studio inefficace, nonché alla supposta inadeguatezza della ragazza di fronte al livello della scuola, che a loro dire non sarebbe stata quella «giusta per lei».

Così, nel mese di dicembre sono entrato in scena io: i genitori hanno deciso di chiedere il mio aiuto affinché, come consulente esperto in disturbi dell’apprendimento, li aiutassi a “dialogare” con la scuola e a ottenere ciò che alla figlia spettava di diritto ma era stato fino ad allora negato.

È importante, prima di proseguire, che io vi dica due cose. La prima è che conoscevo e avevo seguito la studentessa, come tutor DSA, l’anno in cui aveva frequentato la prima classe della scuola secondaria di primo grado. Poi, però, la mia attività di supporto si era interrotta, dal momento che la ragazzina aveva appreso un metodo di studio adeguato, aveva imparato a costruire mappe e schemi e a fare sintesi del materiale. Quindi, grazie anche a insegnanti attenti e bravi — che nulla più facevano che applicare correttamente il PDP! — e alla scuola davvero inclusiva che frequentava, la fanciulla “camminava con le proprie gambe” e otteneva ottimi risultati, tanto da uscire con un voto molto alto all’esame di terza media.

La seconda cosa è che, giustamente, la famiglia si rifiutava di firmare il PDP, continuando a segnalarne le mancanze, senza tuttavia ottenere dall’istituzione scolastica un reale interessamento rispetto alla sua modifica.

Allora, a partire da gennaio 2023 ho cercato di stabilire con la scuola un rapporto di collaborazione professionale, proprio come ho sempre fatto e faccio tuttora, con ottimi risultati, in decine di altre scuole in Valle d’Aosta. Ho «cercato». Perché invece, purtroppo, non ci sono riuscito, dal momento che questa scuola non è mai stata molto disposta a collaborare con me, men che meno ad accettare che io — ancorché professionista esperto in disturbi dell’apprendimento — fornissi consigli su come lavorare meglio con questa alunna.

Comunque, tra dicembre e maggio anche io, insieme ai genitori della ragazza, ho partecipato a diversi colloqui e riunioni, sempre senza esiti apprezzabili. Anzi, talvolta sono stato trattato come un “disturbatore”, anziché come un professionista che era lì al fine di collaborare per il solo bene della studentessa, venendo una volta addirittura deriso da un’insegnante nel bel mezzo di un colloquio.

Né hanno avuto miglior sorte le mie numerose mail, inviate ai docenti per fornire indicazioni o suggerire strategie, tutte puntualmente rimaste senza risposta e senza applicazione.

Fino a che, a un certo punto, mi è stato impedito di partecipare ai successivi colloqui e anche alla verifica finale del PDP, nonostante i genitori avessero espressamente richiesto la mia presenza e nonostante il mio intento fosse unicamente quello di collaborare per superare le divergenze e dare alla ragazza un percorso scolastico ottimale.

Se è vero che negli ultimi mesi il PDP era stato rivisto e la didattica era stata resa un po’ più aderente alle necessità della ragazza, è anche vero che — come correttamente rilevato dai giudici del TAR di Aosta — ormai era troppo tardi per recuperare le insufficienze accumulate nel corso dell’anno scolastico.

Così, la conclusione è stata quella che tutti conosciamo: a giugno la studentessa non è stata ammessa alla classe successiva.

Da qui in poi è storia nota, quella riportata in maniera molto precisa dai media locali: la famiglia ha promosso ricorso al TAR della Valle d’Aosta, che subito, in via cautelativa, ha ammesso con riserva la ragazza alla seconda classe e poi ha accolto il ricorso annullando definitivamente il provvedimento di bocciatura assunto dal consiglio di classe, con una sentenza esemplare e inappuntun determinato settore educativo (nel mio caso, iabile, che non risparmia una forte critica all’operato della scuola.

È giusto, a questo punto, attribuire i meriti a chi li ha avuti. La famiglia della ragazza è stata affiancata da un team legale decisamente valido, costituito dall’avv. Maria Chiara Marchetti di Aosta, dall’avv. Antonio Caterino di Milano e dall’avv. Elia Barbujani di Bologna. Avvocati che hanno profonde competenze in tema di normativa sui DSA e di doveri delle istituzioni scolastiche, ma che hanno anche un grande rispetto per i ragazzi in difficoltà e la capacità di tutelarli in tribunale, laddove a tutelarli non sia riuscito chi dovrebbe farlo in prima istanza: la scuola.

Ma un altro merito l’ho avuto io. Ebbene sì, per una volta bando all’umiltà, quel che è giusto è giusto! Fin dalla decisione della famiglia di ricorrere contro la bocciatura io ho continuato la mia attività di consulenza, in una costante collaborazione con gli avvocati che ho per tutta l’estate visto o sentito al telefono o via mail, e ai quali ho scritto diverse relazioni e pareri tecnici — utili per impostare adeguatamente il ricorso dal punto di vista dei contenuti — su una materia che è mia e sulla quale riconosco di avere profonde competenze.

Grazie al lavoro degli avvocati e al mio — svolto “dietro le quinte”, ma certamente determinante —, il TAR ha dato ragione alla famigun determinato settore educativo (nel mio caso, ilia della ragazza, nonostante la Regione si sia costituita in giudizio continuando a opporre il corretto operato della scuola e a collegare la bocciatura alle presunte colpe della studentessa. Opposizioni tutte decisamente respinte dai giudici.

In questo articolo mi sono dilungato, è vero, perché voglio che la vicenda sia chiara a tutti voi che mi leggete. Voglio che la storia di questa ragazza, purtroppo simile a quella di tanti studenti con DSA, possa diventare un esempio da seguire per i ragazzi e le loro famiglie. E possa diventare un duro monito per quegli insegnanti e in generale quelle scuole che non svolgono un lavoro serio, umile e davvero inclusivo nei confronti di chi, certificato, fatica e ha bisogno di strumenti e misure puntuali e concreti per riuscire almeno in parte a essere alla pari dei compagni.

Sì, perché qui non stiamo parlando di studenti svogliati o con scarse capacità di studio. Qui parliamo di ragazzi con una diagnosi di DSA, magari grave per patologie ulteriori, come nel caso che ci interessa. E allora la scuola deve essere in grado di applicare la normativa e mettere in campo tutte le risorse, tutti gli strumenti e tutte le strategie necessari affinché questi ragazzi possano apprendere e riuscire, malgrado le proprie difficoltà.

Una considerazione, forse banale, devo allora condividerla con voi. Nel caso che ho raccontato c’è una ragazza con un DSA grave, che tuttavia si impegna tantissimo e ci tiene alla scuola; c’è una famiglia che fin da subito ha cercato un dialogo con gli insegnanti per addivenire a un PDP ben fatto; c’è un professionista (io) che ha fatto di tutto per spiegare ai docenti le difficoltà di questa studentessa e consigliare le strategie migliori. E c’è una scuola che ha sempre rifiutato di ascoltare e seguire ogni richiesta, ogni consiglio, ogni critica costruttiva.

È quindi stato necessario ricorrere a un tribunale, i cui giudici, finalmente, hanno capito tutto e hanno chiarito che la scuola è stata inadempiente fin dall’inizio.

La considerazione banale è questa: se gli insegnanti e più in generale gli “attori” di quella scuola avessero avuto la buona volontà (e l’umiltà) di ascoltare la voce di chi voleva collaborare con loro nell’unico interesse della studentessa; se avessero accettato e accolto la possibilità che qualcosa davvero non stesse funzionando e andasse cambiato; se avessero riservato un maggiore rispetto a un professionista (sempre io) che a gran voce sosteneva che il binario era quello sbagliato. Ebbene, quasi sicuramente non si sarebbe arrivati alla bocciatura, e quindi al ricorso, e quindi a una sentenza che boccia chi ha bocciato, che bacchetta chi ha bacchettato.

Un sentenza che attribuisce gravi responsabilità a chi quelle responsabilità ha sempre rovesciato addosso all’unica persona la quale non ha mai avuto alcuna colpa: la ragazza protagonista di questa vicenda.

Meditate gente, perché questa storia deve, davvero, finire.

Sono passati più di tredici anni dalla promulgazione della legge 170/2010 sui DSA e dodici dalla pubblicazione delle Linee guida ministeriali che forniscono indicazioni precise sui doveri di scuole e insegnanti. Eppure, siamo ancora al livello di dover ottenere da un tribunale quello che le scuole e gli insegnanti non sono in grado di dare ai ragazzi con una certificazione. Serve una maggiore formazione agli insegnanti, continua e puntuale; serve un maggiore controllo sulle istituzioni scolastiche; serve l’inserimento di referenti DSA competenti e autorevoli. Altrimenti, non usciremo mai da questo triste “buco nero”.

E se tra voi lettori vi fossero genitori i cui figli si trovassero in situazioni analoghe a quelle della storia che ho raccontato, non esitate a contattarmi per una consulenza: potremmo analizzare insieme il PDP, capire se vi sia qualcosa che non funziona, cercare un dialogo con la scuola. E poi, se si arrivasse a una rimandatura o a una bocciatura, insieme al team di legali potremmo verificare le possibili azioni per tutelare i diritti, troppo spesso calpestati, dei nostri ragazzi con DSA.


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