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Sull’ultimo numero di Psicologia clinica dello sviluppo è stata pubblicata una rassegna della letteratura che si occupa di solitudine nei ragazzi con DSA1.
Al di là del contenuto dell’articolo – che è estremamente interessante ma che esula dagli scopi di questo mio post, ragion per cui non ne scriverò una sintesi –, vorrei attirare l’attenzione sul tema del quale tratta: la solitudine. Le autrici riferiscono che «Studi condotti su questi temi con bambini e ragazzi affetti da disturbi specifici di apprendimento hanno evidenziato una generale difficoltà nell’instaurare rapporti con i propri pari e nell’appartenere a un gruppo, una tendenza a creare piccoli aggregati con individui con caratteristiche simili e/o con altre difficoltà, e in generale a escludersi e isolarsi dalle attività sociali». Ricordano poi che «Gli studenti con disturbi specifici di apprendimento vivono […] la scuola come fonte delle loro maggiori difficoltà, le quali possono ripercuotersi a livello di reputazione sociale, isolamento, malessere e disagio socio-relazionale». Infine, l’ultimo passaggio sul quale vorrei soffermarmi è questo: «I bambini e i ragazzi affetti da disturbi specifici di apprendimento, proprio a causa delle difficoltà di tipo socio-relazionale […], appaiono particolarmente a rischio di sviluppare sentimenti di solitudine».
Senza nulla togliere agli studi ai quali le autrici della rassegna fanno riferimento, la cui validità scientifica è sicuramente un dato di fatto che non ho alcuna intenzione di contestare, vorrei però sottolineare che nella mia esperienza “sul campo” ho finora incontrato situazioni diametralmente opposte. I bambini e i ragazzi con cui mi sono finora trovato a lavorare non hanno difficoltà a rapportarsi con i pari, molti di loro anzi sono ben inseriti nei gruppi dei coetanei, tanto a scuola quanto fuori; men che meno tendono a stare con ragazzi con caratteristiche simili, con i quali anzi, se possono, evitano di instaurare rapporti troppo stretti, consapevoli del fatto che, quanto meno a scuola, da loro non possono ricevere e a loro non sono in grado di offrire aiuto nello studio e nelle attività scolastiche in genere. Ovviamente non ho condotto alcuna ricerca su questo punto, non ho alcun termine di paragone tra i ragazzi che frequentano il mio studio – comunque di età e livelli scolastici differenti, e con differenti disturbi dell’apprendimento – e altri, come ad esempio ragazzi che non lavorano con me oppure di altre regioni; il mio campione, quindi, è tutto fuorché rappresentativo, con la conseguenza che le mie non sono assolutamente constatazioni scientifiche, ma solo osservazioni sul campo.
Da quanto detto deriva che non sono in grado di spiegare scientificamente le ragioni per cui il mio “campione” non incarna in sé le caratteristiche che gli studi vorrebbero invece attribuirgli. Azzardo quindi alcune ipotesi, che in più richiedono necessariamente di generalizzare. Può essere che la “macchina” segnalazione-valutazione-diagnosi in Valle d’Aosta funzioni particolarmente bene, per cui i bambini vengono generalmente certificati in età precoce (nel corso della scuola primaria) con la conseguenza di fornire loro adeguati aiuti didattici e un corretto sostegno motivazionale fin da piccoli. Può essere che genitori consapevoli riescano a rendere altrettanto consapevoli i bambini e i ragazzi, sicuramente delle loro difficoltà ma anche e soprattutto dei loro punti di forza, dei loro pregi come “persone-al-di-là-della-scuola”. Può essere che insegnanti attenti e competenti forniscano davvero supporto e aiuto, vicinanza e comprensione, aiutando i ragazzi con DSA a vivere con serenità la propria situazione anche di fronte ai compagni (come persone) e all’interno del gruppo classe (come studenti). Può essere che il nostro sia un contesto ambientale privilegiato, dove le scuole sono ancora luoghi vivibili e dove ciascun bambino e ragazzo viene considerato una ricchezza, una Persona (la P maiuscola è voluta) che va aiutata a diventare l’Adulto (idem la A) di domani e non soltanto un contenitore da riempire di nozioni perché così la scuola avrà assolto il proprio dovere di fronte alla società. Ripeto: ho generalizzato, ma siccome per fortuna vivo quotidianamente situazioni come queste, ho ragione di credere che siano valide giustificazioni (forse non scientifiche, ma reali) al relativo stare bene dei nostri bambini e ragazzi con DSA.
Mi trovo invece pienamente d’accordo con il secondo estratto della rassegna: le difficoltà a scuola – che è il contesto sociale dove i bambini e i ragazzi trascorrono una parte considerevole del loro tempo e dove investono una quantità notevole di risorse emotive e relazionali – possono sfociare in malessere e disagio a livello socio-relazionale, oltre che (aggiungo io) a livello di autostima. Ecco quindi che, per evitare che tale disagio insorga realmente, oltre a una famiglia che offra sicurezza e consapevolezza, e ad un eventuale sostegno psicologico professionale, entra necessariamente in gioco anche la componente umana del sistema scuola: è proprio per scongiurare l’isolamento e il malessere che gli insegnanti nei confronti dei ragazzi con DSA devono essere accoglienti ed empatici, disponibili e collaborativi, ma soprattutto estremamente competenti e consapevoli delle difficoltà specifiche di ciascun ragazzo. Ben vengano quindi (e sia cura dei dirigenti scolastici facilitare questo processo) gli incontri con le équipe sanitarie, con i tutor che seguono i ragazzi nello studio, allo scopo di conoscere i singoli casi e attivare strategie didattiche (e relazionali) realmente adeguate.
Tutto quanto sopra, in conclusione, ha lo scopo unico di fornire ai bambini e ai ragazzi con disturbi dell’apprendimento un vero aiuto a livello socio-relazionale, così da allontanare il rischio di sviluppare – anche – sentimenti di solitudine.


1 Eboli G., Corsano P. (2017), «La solitudine in bambini e ragazzi con Disturbi Specifici di Apprendimento: una rassegna della letteratura», Psicologia clinica dello sviluppo, anno XXI, n. 1, aprile 2017, pp. 25-50.

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