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La mia, lo ammetto, è una professione un po’ particolare. Di base, sono un consulente e un tutor.
Consulente per le famiglie dei ragazzi che si scontrano con difficoltà nello studio o che hanno una diagnosi per uno o più di disturbi dell’apprendimento: spiegare loro che cosa fare, illustrare le norme giuridiche di riferimento, indicare i passi da seguire per ottenere l’indennità di frequenza – e assisterli nella redazione del ricorso in caso di diniego –, creare la rete con gli operatori sanitari, tenere i rapporti con la scuola, in particolare per la corretta applicazione del PDP.
Tutor con i ragazzi: aiutarli a trovare un metodo di studio efficace, affiancarli nello svolgimento dei compiti, installare sul loro computer i software compensativi più adatti, insegnare loro come usarli quotidianamente a scuola e a casa, stare loro vicino per affrontare insieme le mille e mille difficoltà che avere un disturbo dell’apprendimento comporta.
Quello che però, nell’intraprendere questa professione, non avrei mai immaginato, è che, oltre ad essere un consulente e un tutor, sono diventato, mio malgrado, un difensore. Difensore dei ragazzi, difensore dei loro genitori. Difensore da chi, in teoria, dovrebbe aiutarli: la scuola e le istituzioni.
Non esagero se dico che ho trascorso praticamente tutto il secondo quadrimestre di questo anno scolastico partecipando a riunioni di équipe, scrivendo mail e facendo telefonate con insegnati, dirigenti scolastici, coordinatori di classe. Perché il PDP non viene applicato. Perché le interrogazioni e le verifiche non sono adeguate e commisurate al singolo ragazzo con DSA. Perché da questi ragazzi si pretendono gli stessi risultati del resto della classe. Perché fioccano le insufficienze a fronte di richieste eccessive e per verifiche talvolta impossibili. Perché schemi e mappe mentali non sono necessari. Perché «non mi interessa se sei DSA, ti interrogo come tutti gli altri». Perché «tu non sei certo un DSA, sono le persone che ti stanno intorno che ti convincono che tu lo sia». E perché «mi stupisce che non ti abbiano bocciato, non sai nulla».
E le istituzioni, perché l’indennità di frequenza, dovuta per legge, è una chimera e ottenerla è peggio che scalare una montagna: viene confusa con l’accompagnamento per i disabili, viene negata, poi viene concessa se i genitori agguerriti propongono ricorso, perché i motivi c’erano, ci sono sempre stati, ma in Italia per ottenere quello che ti spetta di diritto devi lottare e fare la voce grossa, non prima di essere stato umiliato, tu genitore e tu bambino.
Mi sta bene. Se fare il consulente DSA significa anche fare il difensore di questi ragazzi e delle loro famiglie contro soprusi e ingiustizie che rendono ancor più complicata una vita che complicata lo è già di per sé, allora ben venga. Lo faccio e lo farò sempre, fino a che non sarà chiaro – a tutti, al mondo intero – che nessuno ha scelto di avere un disturbo dell’apprendimento, che una diagnosi di DSA non è una colpa. Fino a che chi ne ha il dovere impari fino in fondo che cosa occorre fare per aiutare questi ragazzi a passare sereni al di là del ponte che la scuola – volenti o nolenti – costituisce per tutti.

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