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Ad un certo punto, arriva per ogni ragazzo il momento di scegliere quale percorso formativo intraprendere dopo la scuola secondaria di primo grado. A parte alcuni alunni che sono già pienamente convinti di una certa scelta, magari per una passione scoperta da tempo oppure – come si suol dire – per seguire le orme di un genitore, per la maggior parte dei giovani si tratta di un momento difficile, pieno di dubbi, speranze, aspettative, incognite. Oggi è praticamente impossibile scegliere sulla base di certezze per il futuro, le quali un tempo potevano forse costituire un criterio rilevante, mentre nel periodo storico che viviamo rischiano di sfumare in delusioni; ed è anche estremamente difficile districarsi tra le tante offerte formative di scuole sempre più numerose e con percorsi e indirizzi di studio non sempre così definiti e talvolta molto simili.
A tutto questo per un ragazzo con disturbi dell’apprendimento si aggiungono le difficoltà oggettive che ben conosciamo, e che rappresentano un’incognita ulteriore nella scelta: quale possa essere la scuola “giusta”, se le richieste saranno onerose in termini di fatica supplementare, quali aiuti saranno opportuni, quali possibili, quali messi in campo. Ma, alla fine e – dico io – per fortuna, la maggior parte dei giovani con diagnosi di DSA opta, alla pari dei coetanei, per il percorso che più appassiona, interessa, è vicino alle proprie aspirazioni, che più sembra quello giusto per raggiungere i propri obiettivi di vita.
Purtroppo, però, anche nella scuola secondaria di secondo grado talvolta i ragazzi e le famiglie sono costretti a scontrarsi con una realtà ben diversa da quanto, a ragione, ci si potrebbe aspettare dal livello di istruzione coinvolto. Non diversamente da quanto accade nella scuola primaria e nella secondaria di primo grado, non sono rari i casi di PDP predisposti male oppure non adeguatamente applicati; di insegnanti poco disposti a fornire gli aiuti che spetterebbero di diritto o, peggio, a riconoscere le oggettive difficoltà degli allievi che hanno di fronte; di dirigenti ostinati e sordi alle istanze non solo dei genitori, ma anche degli operatori sanitari di riferimento. Se queste situazioni sono assurde nella scuola dell’obbligo, diventano addirittura inaccettabili nella scuola superiore, dove dai docenti ci si aspetta una competenza di alto livello, una conoscenza completa dei disturbi dell’apprendimento, un’applicazione seria delle misure decise dal consiglio di classe. Invece, purtroppo, non è così.
Quest’anno ho il piacere di seguire come tutor diversi ragazzi che frequentano le superiori; tra questi, tre frequentano la medesima scuola – della quale tacerò il nome, per ragioni di mera correttezza, anche se vorrei renderlo pubblico per mettere in guardia altri giovani intenzionati ad iscrivercisi in futuro… –, tutti e tre con diagnosi di DSA e fragilità piuttosto marcate nella memorizzazione. Quel che più salta all’occhio è l’enorme fatica che ho incontrato e tuttora sto incontrando per ottenere che a questi ragazzi vengano concessi gli aiuti più opportuni in base alla diagnosi: numerose riunioni anche insieme agli operatori sanitari, colloqui, mail non sono mai sufficienti a far capire ai docenti i veri problemi e gli strumenti che servono davvero. Tutto inutile: mappe concettuali che continuano a non essere concesse, per lo più sulla base di criteri interni alla scuola che non sempre vanno d’accordo con le esigenze degli allievi, ma spesso anche per partito preso degli insegnanti; verifiche scritte fatte per la gran parte (e a volte esclusivamente) di domande aperte anziché a risposta multipla; valutazioni insufficienti (anche gravi: 2 o 3) che non tengono conto delle difficoltà incontrate e che, comunque, scaturiscono da verifiche inadeguate. E, tristemente, a nulla serve contestare, spiegare, proporre: i docenti rimangono arroccati sulle proprie posizioni, la dirigenza reagisce con fastidio malcelato, lavandosene le mani.
Ma, cari lettori, non è questo l’aspetto che qui voglio mettere in luce, anche se di per sé è già un fatto grave. Ancor più grave e più triste è che, proprio in questi giorni, gli insegnanti di due di questi tre ragazzi – i quali frequentano indirizzi diversi e classi diverse, e hanno quindi docenti diversi – abbiano detto ai rispettivi genitori, in occasione del colloquio parenti, che forse i due non sono adeguati per questa scuola. Le richieste sarebbero troppo onerose per loro, il livello troppo elevato, la fatica eccessiva. Quindi, forse sarebbe meglio considerare il passaggio ad altro istituto.
Ebbene, questo io non lo accetto. Intanto, perché in entrambi i casi si tratta di ragazzi ai quali finora non sono stati concessi adeguatamente – o non sono stati concessi per nulla – gli aiuti necessari, ai quali anzi, almeno da parte di certi docenti, sono stati posti ostacoli e create difficoltà talvolta insormontabili, con la conseguenza di un profitto basso. Ancor più, però, perché la realtà dei fatti è un’altra, e ci dice di persone con DSA che affrontano con profitto l’università e si laureano con voti più che dignitosi; ci dice di uomini e donne che trovano strategie per minimizzare le difficoltà imposte dai propri disturbi, e hanno una vita serena con carriere lavorative anche brillanti; ci dice che la scuola non è un ostacolo in quanto tale, ma può diventarlo per sua stessa causa.
I due ragazzi protagonisti di questo articolo hanno scelto questa scuola e non altre, perché a loro piace questa scuola, anche se sanno bene che non è facile e si rendono conto che faticano per andare avanti. Chapeau! Basterebbe che la scuola, da loro liberamente scelta e che vanta un livello di qualità così elevato, fosse in grado di capire le loro difficoltà e assicurare loro un percorso di studio non certo più facile, ma adeguato ai loro disturbi grazie agli opportuni aiuti. Basterebbe che gli insegnanti smettessero di creare ostacoli e iniziassero invece a creare passione e instillare autostima. Invece no. Verifiche inadeguate e ostinazione a non far usare gli strumenti compensativi provocano insufficienze anche gravi, e da qui la soluzione: cambiare scuola. Non è così. Forse che i ragazzi con DSA costituiscono un problema per la scuola? Forse che, allora, metterli in difficoltà, demotivarli, poi metterli di fronte ad un (inevitabile) profitto insufficiente e, quindi, indurli ad andarsene sia un modo per togliersi di torno il problema? Non voglio pensarlo, ma i fatti portano a pensarlo, dato anche che si tratta di più casi.
Forse, semplicemente, non sono i ragazzi ad essere inadeguati a questa scuola – o, volendo generalizzare, a determinati tipi di scuola superiore –: forse, sono le scuole che non sanno (o non vogliono) essere davvero accoglienti nei confronti di tutti, «includenti» come si usa dire.
Dunque, ancora una volta: questi problemi vanno sollevati, queste situazioni vanno rese note, affinché non siano i nostri ragazzi a doversi adeguare ad un sistema scolastico cocciuto e sordo, ma finalmente sia il sistema ad adeguarsi, ad avvicinarsi, a prendersi carico (nel senso più completo e umano dell’espressione) di tutti i ragazzi, compresi quelli con disturbi dell’apprendimento.

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