Condividi:          Giovedì 14 marzo 2013, ore 16.15. La professoressa Antonella Marchetti, dell’Università Cattolica di Milano, presidente della commissione di Dottorato, mi proclama Dottore di ricerca in Scienze Umane, indirizzo in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione. Dizione completa e lunghissima, abbreviabile (e sempre abbreviata) in «Ph.D.», dall’inglese Philosophy Doctor, che indica appunto il dottore di ricerca, contrapposto […]
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Giovedì 14 marzo 2013, ore 16.15. La professoressa Antonella Marchetti, dell’Università Cattolica di Milano, presidente della commissione di Dottorato, mi proclama Dottore di ricerca in Scienze Umane, indirizzo in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione. Dizione completa e lunghissima, abbreviabile (e sempre abbreviata) in «Ph.D.», dall’inglese Philosophy Doctor, che indica appunto il dottore di ricerca, contrapposto al «Ps.D.», Psychology Doctor, che è il dottore laureato in psicologia.
Un nuovo traguardo.
Avevo iniziato la scuola di Dottorato nel 2009, quando ancora dovevo laurearmi in Psicologia; ma si sa, siamo in Italia e quindi ho potuto iscrivermi al concorso in forza della mia vecchia laurea in Giurisprudenza. Un po’ per sfida personale, un po’ perché me l’aveva proposta la mia docente e relatrice di tesi, la prof. Paola Molina, un po’ perché avrei avuto la possibilità di studiare e fare ricerca sulle relazioni significative tra bambini e adulti, argomento che mi interessava da tempo e che la mia tutor aveva accettato come argomento del lavoro di ricerca. Quattro lunghi anni: i tre nominali della scuola, più uno di proroga. Ci sono arrivato.
Per descrivere in breve questa esperienza, riporto di seguito la prefazione alla tesi di dottorato, perché credo che sia il modo migliore per riuscire a spiegare quello che ho fatto, ma soprattutto quello che ho provato.

Accade spesso, quantomeno agli studiosi, che un aspetto della vita quotidiana susciti una forte curiosità dal punto di vista teorico e si trasformi, alla fine, in un interesse di ricerca vero e proprio. Questo è quanto è accaduto a me già parecchio tempo fa.
Impegnato ormai da moltissimi anni come volontario in contesti educativi e ricreativi per bambini (scautismo, gruppi parrocchiali e diocesani, centri estivi), ho avuto modo di diventare un «adulto significativo», nel corso del tempo, per molti di loro. Bambini che si rivolgono a me – anche fuori dallo specifico contesto di gruppo – quando hanno un problema personale, quando sono tristi e cercano consolazione, quando vogliono sapere o fare qualcosa; bambini con i quali trascorro del tempo e dai quali ricevo affetto, fiducia, stima. Bambini i cui genitori mi confermano e condividono tali circostanze, considerandomi essi stessi un punto di riferimento per i propri figli, non solo all’interno del contesto. E ciò, naturalmente, ho avuto modo di osservare non soltanto nei miei confronti, ma anche in quelli dei vari colleghi volontari con cui di volta in volta mi sono trovato a lavorare.
Alla gratificazione personale e alla responsabilità che essere un adulto significativo comporta, si è aggiunta poco alla volta la curiosità di capire perché una persona senza alcun legame di parentela, spesso conosciuta da poco e comunque frequentata per poche ore alla settimana diventi così importante per un bambino da costituire per lui un punto di riferimento vicino o anche alla pari – a detta degli stessi – dei genitori. Come nasce un legame affettivo ed emotivo così forte? Come si costruisce una relazione significativa tra un bambino e un adulto esterno alla sua famiglia? Quali sono le eventuali caratteristiche personali o situazionali che intervengono nella costruzione di una tale relazione? Quali requisiti devono essere presenti affinché tutto ciò avvenga?
Queste domande hanno occupato la mia mente almeno per tutto il periodo della frequenza universitaria e si sono trasformate in un interesse di ricerca, al punto che avevo chiesto alla professoressa Molina, mia relatrice, di preparare la tesi di laurea magistrale proprio su questo argomento. Fu tuttavia la stessa docente a sconsigliarmelo, dati i tempi stretti del tirocinio per la tesi, che avrebbero sacrificato un lavoro potenzialmente corposo e interessante dal punto di vista scientifico. E fu sempre la stessa professoressa Molina a propormelo come progetto di ricerca, nel momento in cui mi apprestavo a iniziare il percorso di dottorato.
Il lavoro si è poi rivelato più lungo del previsto – anche questo accade spesso, come mi hanno raccontato alcuni colleghi – e io ho dovuto fare i conti con difficoltà non considerate prima, incidenti di percorso, revisioni del progetto in corso d’opera, modifiche anche sostanziali ad aspetti che sembravano invece già definiti, rinunce a parti dello studio per mancanza di tempo o di adeguata organizzazione – spesso anche per colpa mia.
Alla fine, dopo aver organizzato e analizzato una mole veramente molto ampia di dati, probabilmente non sono riuscito a rispondere a tutte le curiosità da cui ero partito; alle domande di ricerca però sì, e questo è comunque un risultato importante. Altre domande, molti dubbi, nuovi spunti sono nati durante l’analisi dei dati – come accade spesso – e mi auguro che nel futuro qualcuno (io stesso o, perché no?, altri ricercatori o studenti) possa essere tanto interessato all’argomento da riprenderlo in mano e trovare altre risposte, fugare almeno alcuni dubbi, approfondire nuovi aspetti.
Quel che è certo, è che a livello personale, accademico e professionale questa ricerca mi ha donato tantissimo, ne esco arricchito. Ho letto e imparato molto, ho costruito strumenti, sono entrato nelle scuole, ho incontrato dirigenti, insegnanti e soprattutto bambini (tanti!), ho inserito e analizzato dati, letto e codificato risposte. Ho scoperto molto sulla vita dei bambini, sulle famiglie di oggi, sulle attività, sulle persone che frequentano. Ho scoperto che cosa pensano e desiderano i genitori per i propri figli.
Ho provato amarezza nel sentirmi rifiutare la disponibilità da parte di molti direttori didattici; ho provato fatica nel girare in auto per gran parte della provincia da una scuola all’altra per consegnare i questionari dei genitori, recuperare i questionari, concordare orari, somministrare i questionari ai bambini, ancora somministrarli ai bambini assenti la prima volta; ho provato rabbia nell’aver a che fare talvolta con insegnanti poco “presenti” non tanto fisicamente quanto nell’aiutarmi; ho provato noia nel fotocopiare, numerare e inserire nelle buste milleseicentoottantacinque questionari, poi nel leggere tutte le risposte e inserirle nel database; ho provato vero sconforto nel preparare e codificare le milleduecentosessantasette variabili che costituiscono la mia matrice dati di SPSS; e ho provato, alla fine, la disperazione di chi si rende conto che il tempo a disposizione è finito e non ha fatto tutto quello che era da fare.
Ma tutto è stato, in ogni momento, superato grazie all’interesse sempre crescente per quanto stavo facendo, alla disponibilità dei molti insegnanti che ho incontrato, alla curiosità dei bambini con cui ho lavorato, all’idea che qualcosa stava piano piano prendendo forma; e poi ai continui stimoli della mia ineguagliabile tutor, delle colleghe dottorande e non del suo gruppo di lavoro, e dei tanti amici che mi sono stati accanto in questi anni.
Accade spesso – ed è giusto che sia così – che, arrivati alla fine, si dica: avrei potuto fare meglio.
Ebbene: avrei potuto fare meglio.
Chi vuole, è invitato a raccogliere il mio testimone.

Qualcuno mi ha chiesto che cosa farò, ora che ho acquisito questo titolo. Chi può dirlo, rispondo io. Si sa, siamo in Italia e quindi il titolo di PhD non se lo fila molto nessuno… Non ho in mente di dedicarmi alla carriera universitaria; ho studiato molto e fatto anche un po’ di sacrifici per fare lo psicologo “sul campo”: questo sto facendo e questo vorrei continuare a fare. Tuttavia, non escludo certo a priori la possibilità di collaborazioni in Università: un progetto, una docenza a contratto, chissà. Solo il futuro mi mostrerà le vie che di volta in volta seguirò.
Grazie a tutti, e continuate a seguirmi! 🙂

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